Le cucine hanno gli occhi

Le cucine hanno gli occhi

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“Quindi è finita?” “Si…lui può fare tutto ciò che vuole, ma non ha più speranze, ormai”.

Bevo un sorso di caffè caldo, mentre mi godo il paesaggio che mi si offre davanti. Il sole sta per nascondersi dietro le colline, il lago sotto di esse sembra essere ricoperto d’oro. Poche case lontane si sparpagliano su questo tappeto verde. I profumi e i colori preannunciano che la primavera è arrivata.
Mi volto verso la persona che mi si trova accanto e noto che forse sarebbe potuta andarmi meglio. Rassegnato, ascolto il mio corpulento che che mi dice la sua sul mio collega, oggi assente, in missione per tentare di recuperare il suo amore perduto. “Si può? C’è nessuno?” una voce dall’interno del ristorante ci interrompe. “Arriviamo!” risponde lo chef, alzandosi dalla panchina. Pausa finita.
Ad aspettarci in cucina c’è il padre dello chef. Una per mano, stringe le zampe posteriori di un maialino, che gioca a superman, ma a testa i giù. Fino a ieri si rotolava nel fango. Ci presenta il suo ospite “Questo è buono. Tenero tenero. Facciamo metà per uno” “E che ci faccio con solo metà? Manco due porzioni! Vabbè ce lo mangiamo domani per pranzo”. Evvai.
Poi, rivolto verso di me “Fatti i tortini”. Tortino al cioccolato. Si fa l’impasto, si versa negli stampini monoporzione, si congela. Al servizio, in forno a 200°. Si ottiene una cosa morbidissima, da cui ne fuoriesce una cascata di cioccolato caldo. Strepitoso. Sto cominciando a sbavare, devo pensare ad altro.
Riprendo la conversazione di prima “E quindi perchè sei così pessimista?” “Beh considera che già è difficile mandare avanti una relazione a distanza…”
STOK. Un colpo di mannaia si abbatte pesantemente tra le zampe del maialino, ancora saldamente stretto tra le mani del padre dello chef.
“A quest’età, poi….” STOK “E lei gli avrà messo un sacco di corna!” STOK. E a ognuno la sua metà. “Addirittura! Questo non lo puoi sapere!” gli rispondo mentre amalgamo il cioccolato sciolto alle uova. Il profumo di cacao mi sta entrando nel cervello. Devo distogliere lo sguardo.
Mi concentro sullo chef che prepara il pranzo di domani. Il suo profilo del maialino poggiato su una teglia con olio sale pepe rosmarino timo alloro finocchietto e due carotine. Alla faccia dell’acquolina in bocca.
“Ma sì che gliel’ha messe! Ma che non l’hai vista?!” “In effetti…” sono costretto ad ammettere, versando l’impasto negli stampini.
“Ma perchè l’ha lasciato?” mi accorgo di aver fatto la domanda giusta, mentre metto gli stampini in forno, senza starci troppo a pensare, come se fosse un passaggio automatico. Con entusiasmo e trasporto lo chef mi descrive nei minimi particolari tutti i retroscena della loro relazione. Non so fino a che punto fosse tutto vero. Ma non importa.
Poi si ferma. Con gli occhi su di me. Ricambio il suo sguardo con aria interrogativa, in attesa di qualcosa. Non dice niente, sembra stia pensando. Poi finalmente “Ma i tortini li hai messi in forno?” “Sì” rispondo con tono ovvio. Ma dura meno di un istante. Subito dopo vengo assalito da, in ordine: sorpresa, preoccupazione, angoscia, rabbia verso me stesso, sensi di colpa, frustrazione e impotenza per l’irrimediabile danno ormai commesso. Tutto in un secondo e mezzo circa. Tolgo i tortini dal forno. Quasi cotti. Tutti. Devono essere messi in forno subito prima di essere serviti, altrimenti non vengono. Sono inutilizzabili.
“Li rifaccio subito!” sto per piangere “Ma no, ormai falli domani” mi risponde lo chef, che deve aver letto la mia amarezza “E adesso con questi che ci facciamo?” “E mo’ te li mangi tutti!” mi ordina con aria minacciosa. Non capisco se è una punizione o un premio di consolazione.
Passo tutta la sera a mangiare tortini al cioccolato. Passo tutta la notte sulla tazza del cesso.
Cucina. Ogni errore si paga.
Di Antonio Emilio Sorrentino

Flat Whites e Tattoos, l’altra Malasaña

Flat Whites e Tattoos, l’altra Malasaña

Mi piacerebbe taaanto che, andando in bicicletta col mio cane, mi si bucasse una ruota per poter entrare lì a chiedere aiuto… Mi piacerebbe tanto… peccato non avere né bici né cane… ma anche così entro… (tanto, si dice che nessuno ci vada in bicicletta!).

Amanti della bici? Amanti del tè? Del brunch? Amanti in generale? ‘La Bicicleta’, all’angolo tra Colón e piazza di San Idelfonso, è il posto che fa per noi. Ti viene voglia d’entrare, rimanere un sacco di tempo e ritornare spesso. Dicono che sia il locale più hipster di Spagna, sicuramente è il più moderno di Malasaña, ampio e di stile industriale, ricorda quelli che popolano il Williamsburg newyorchese. ‘La Bicicleta’ ha tutto: costosissime biciclette fixie a 1500 euro il pedale, alcune delle quali autentiche bellezze; un fantastico murale di Biomistura; baristi che, con il migliore dei sorrisi, ti chiamano ‘guapa’; una macchina da caffé Marzocco che pare una Ferrari, mobilio vintage, un orario che va dalla mattina presto, con le colazioni, fino a notte inoltrata con i drink; una lista di tè irresistibile: al rooibos e vaniglia, al cacao e cocco… ed è l’unico locale con i Flat White nel menu, fatti con due dita di schiuma da leccarsi i baffi!

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Qui si viene a lavorare o a sognare. Enormi tavoli in legno sono affollati da non-tanto-giovani con i loro portatili, un vero paradiso per i freelance e i coworker, con wifi gratis e prese elettriche dappertutto. E per farti rimanere tanto tempo ti conquistano con delle tazze di tè enormi, così ci metti ore ad andare via! Le bustine le confezionano essi stessi, e te le servono appese a paletti di legno appoggiato sui bordi delle tazze… un applauso per le cose carine! Nel seminterrato tengono mostre d’arte urban, graffiti e street art che ruotano attorno al mondo delle bici, e se hai la fortuna di assistere a una di quelle davvero belle… la tua esperienza a ‘La Bicicleta’ può dirsi completa.

In più, hanno una piccola officina per le biciclette, così puoi entrare con la tua e gonfiare le ruote o riparare una foratura; e sì, puoi entrare anche con il tuo cane, non è stupendo?

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Ed io, da questo divano tipo Chester, sprofondata fra una montagna di cappotti e spirale di vapori d’infusioni, farò della mia giornata quello che vorrò, perché è tutta mia, piegherò la realtà alla mia volontà, inseguirò conigli bianchi nelle loro tane, correrò scalza per la strada, ruberò una macchina e mi darò alla fuga, sibilerò nell’orecchio del cameriere quello che voglio prendere, sfiderò il cane del vicino a una corsa.

Ballare nuda nel soggiorno, confezionare profumi, chiudere gli occhi in mezzo all’oceano… Farò tutto quello che mi spettina: saltare, baciare, ridere, amare… Farò capriole laterali e mi dipingerò i piedi per lasciare impronte colorate. Sarò un bebè abbracciato alla tetta di mia madre (mi manchi, mamma) e vivrò tanti tanti anni per poter raccontare tante tante storie. Cucinerò per duecento ospiti, Canterò un duetto con Frankie, farò innamorare Gary Grant con un solo battito di ciglia. Fuggirò dai paparazzi e farò merenda nella casetta sull’albero. Oggi, affonderò la faccia nella torta, ispirerò un romanzo del mistero, ballerò su un tavolo con Picasso… Closer di Travis risuonerà mentre lo abbraccio, e fuochi d’artificio esploderanno  ad ogni bacio… Cavalcherò sul mio cavallo bianco, porrò fine alla fame nel mondo, regalerò quadrifogli, mi sveglierò a Parigi, ritornerò ai tempi dell’Università e inciamperò ancora sulle stesse pietre. Mi tatuerò i loro nomi sulla pelle, li voglio addosso per sempre, fino alla fine… E così reco da Mao & Cathy, dove si nasconde il migliore tatuatore del paese… Javier Martín, che mentre mescola i pigmenti colorati mi tranquilizza dicendo che un tatuaggio fa tanto meno male quando più significato ha. Ho sempre pensato che non lo avrei mai fatto… E all’improvviso, ‘sempre’ e ‘mai’ sono parole troppo lunghe per una vita così breve.

E tutto questo nello spazio di un tè, da qui, da un angolino di Malasaña, questa Malasaña che tanto amo… Dove non c’è mappa del tesoro, il tesoro è il mappa.
E questo è il mio dipinto “Gorgelous”. Besos, Raquel García Maciá

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Flat Whites and Tattoos, the other Malasaña

I would soooo love to get a flat tire while riding my bicycle with my dog, just so that I could go in there to ask for help… I would really love that… too bad that I have neither a bike nor a dog… but still, in I go… (gossips say that nobody goes there by bicycle, anyways!)

Bike lover? Tea lover? Brunch lover? Lover in general? ‘La Bicicleta’, in the corner of Colón with San Idelfonso square, is the place for us. You feel compelled to enter, stay long and come back many times. They say it’s the most hipster place in Spain, it sure is the most modern of Malasaña, large and industrial in style, bringing to mind the ones that populate New York’s Williamsburg. ‘La Bicicleta’ has it all: overpriced fixie bikes on display at about 1500 euros a pedal, some of them real beauties, a fantastic mural by Biomistura, baristas flashing their best smiles as they call you ‘guapa’, a Marzocco coffee maker that looks like a ferrari, vintage furniture, opening times starting at early in the morning with breakfast, until dawn with drinks, and an endless list of teas: rooibos, vanilla, cocoa and coconut… and it’s the only place with Flat Whites on the menu, with foam two fingers thick to lick your whiskers!

People come here to work or to dream. With spacious wooden tables crowded with not-so-young ones with their laptops, it is a paradise for freelancers and coworkers, with free wifi and power sockets everywhere. In order to get you to stay a good while, they win you over with enormous mugs of tea, so that it takes you hours to leave! They pack the teabags themselves and serve them hanging from a wooden stick resting on the edges of the cups… kudos for the prettiness! In the basement, they host exhibits of urban, graffiti, and street art revolving around the biking world, and if you’re lucky enough to attend a really good one… your experience at ‘La Bicicleta’ is complete. They even have a little garage for bike repairs, so you can get in with yours and pump up the tires or fix a flat; and yes, you can come in with your dog, isn’t that lovely?

And from here, from this Chester sofa, stacked between fluffy coats and steam spiraling out from infusions, I’m gonna do whatever I want with my day, because it is all mine, I will manipulate reality as I want, I’m going to chase white rabbits down their burrows, I’m going to run barefoot down the street, I’m going to steal a car and flee, I’m going to whisper my order into the waiter’s hear, I’m going to dare to a race my neighbor’s dog. Dance naked in the living room, make perfumes, close my eyes in the middle of the ocean… I will do all the things that make my hair messy: jump, kiss, laugh, love… I’ll do lateral somersaults and I ‘ll paint my feet to leave colored footprints. I will be a baby hugged to my mother ‘s breast (missing you, mommy) and I’ll live many many years so as to tell many many stories. I’m going to cook for two hundred guests, I’m going to sing a duet with Frankie, to seduce Cary Grant with but a wink. I’ll flee from paparazzi and go have a picnic in my treehouse. On this day, I’ll sink my face into the cake, inspire a mystery novel, dance on a table with Picasso…

Closer by Travis will be playing while I’m hugging him and fireworks will explode at every kiss…I will ride my white horse, end hunger in the whole world, I will give four-leaf clovers everyone, I’ll wake up in Paris, I’ll go back to my days of University and trip over the same stones. I’ll tattoo their names on my skin, on me forever and ever, till the end… And that’s when I pop into Mao & Cathy, where the best tattoo artist in the country can be found… Javier Martín, who while mixing the colored pigments reassures me by saying that a tattoo hurts less when it means more. I always thought I would never do it… and suddenly ‘always’ and ‘never’ are words too long for such a short life.

And all of this in one morning, from here, from a tiny hole in Malasaña, this Malasaña that I love… Where there is no treasure map, the treasure is the map.

And this is my “Gorgelous” painting about this. Love, Raquel García Maciá

Le cucine hanno gli occhi

Le cucine hanno gli occhi

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E’ appena entrato nel ristorante. Si è appena seduto. Sarebbe dovuto arrivare più di mezz’ora fa, ma ovviamente ha scelto il momento peggiore, con la sala piena. Naturalmente in cucina c’è un casino pazzesco. Lo chef cerca di mantenerci in riga, ma soprattutto calmi. Ma si vede che anche lui è teso come una corda di violino. E’ tutto il giorno che è nervoso. Qualcuno sbircia attraverso la porta della cucina, per vedere la faccia di uno dei critici più stronzi su scala nazionale.
“Ma guarda che faccia da…” “Che cazzo fate lì?!” lo chef non ci prova più a fare quello tranquillo.
“Forza, sbrighiamoci a fare uscire ‘sti piatti, così lui ce lo facciamo con calma!”
“In che senso…?” prova a sdrammatizzare un collega, buttandola sullo scherzo.
“Non fare il coglione!” Lo fulmina lo chef non ha voglia di ridere, a quanto pare. “Scusa chef!”. 
Facciamo uscire tutti i piatti più in fretta che possiamo, i camerieri fanno avanti e indietro. Nemmeno al ristorante cinese arriva tutto così velocemente. Ma naturalmente non basta.
“Tortelloni di baccalà con salsa di piselli e tartare di tonno.”
L’ordine preso dal maitre arriva come una sentenza di morte.
“Dai, dai, dai!” Con l’incoraggiamento dello chef andiamo ancora più veloci. “Prendimi la salsa di piselli!” Ordina al collega. “Sì chef!”. Sembra tranquillo e sicuro. Ma per un istante mi è sembrato che ha sgranato gli occhi, come se gli fosse venuto in mente qualcosa di terribile. Meglio seguirlo. Entro insieme a lui nella cella frigorifero.
“Ci sta la salsa, no?” Sta tenendo il contenitore un mano, guardando al suo interno. “C’è solo quella vecchia…” “Ma non l’abbiamo rifatta oggi?” “Sì, però l’abbiamo finita” Non ci credo “Hai usato prima quella nuova di quella vecchia?!” Apre la bocca, ma non dice niente “Dai assaggiala e vedi se è buona!” Faccio lo stesso. E’ buona. “Però non si può vedere! E’ verde scuro…” La guardo. Sembra fango.
Sbotto a ridere “Cazzo, e mo?”. Ci pensa un attimo.
Poi gli si illuminano gli occhi. Esce di corsa, lo seguo con lo sguardo farsi strada nella confusione della cucina. Torna trionfante con una boccetta in mano “Colorante!” Lo guardo con aria interdetta. Usare il colorante su un piatto per un critico. Sembra proprio un’idea di merda. Però è l’unica cosa che possiamo fare.
“Va bene, ma metticene poco.” “Se lo sa lo chef ci ammazza!” “Ti ammazza! Sei tu che hai finito quella nuova!” Lo correggo io. “Ormai stai qua, sei mio complice!” Ha ragione lo stronzo. Lo guardo ridacchiare mentre ci svuota mezza boccetta. “Fermo! Ma quanta ce ne metti?!” “Tranquillo” mentre mischia la salsa. La riassaggia schioccando le labbra “Come nuova!” esclama soddisfatto. Immagino.
I tortelloni escono su un letto di un qualcosa verde acido. Non esiste niente in natura con quel colore.
10 minuti dopo vedo uscire la tartare. E’  rosso, il tonno. Rosso Ferrari. Sembra radioattivo per quanto brilla. Guardo il collega. Sorride e mi strizza l’occhio. Mi scappa “Sei un coglione!” con lo chef accanto “Cosa?!” “Niente chef!”.
Due settimane dopo. Lo chef entra in cucina entusiasta. Ha un giornale in mano. “Siamo andati alla grande!” Ci mettiamo tutti intorno ad ascoltare. “Prodotti di prima qualità, lavorati con mani le sapienti dello chef” “Wow” “Siamo troppo forti”. Mi avvicino al collega “Prego, eh!” mi sorride soddisfatto.
“Ma come ha fatto a non accorgersi di niente?” gli chiedo, ancora sorpreso del successo.
“Quando fai qualcosa, la cosa determinante è la convinzione con cui la fai!”. “Quanto sei coglione!”. Ride. Ridiamo tutti. Siamo andati alla grande.
Antonio E. Sorrentino

 

Le cucine hanno gli occhi

Le cucine hanno gli occhi

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9.30 del mattino. Dovrei attaccare ora. Dovrei essere già in cucina con la divisa e tutto quanto, pronto all’azione. E invece no. Sono in mezzo ad un altro centinaio di macchine, tutti agitati e incazzati neri. Ora lo chef mi si incula. Non riesco a pensare ad altro. In genere sono sempre puntuale, ma lui sembra proprio il tipo di persona che non te ne fa passare una.

PEEEEEEEEE. “Taccitùa!”. Per quanto ultimamente sembra più sereno. “Te movi!!” Tanto mi si incula lo stesso. PEEEEEEEEEE. Che mal di testa. PEEEEEEEE. Che giornata di merda.

10.10. Entro in cucina. Troppo bene è andata. “Buongiorno chef, scusi il ri…” mi fermo perchè tanto non mi ascolta nessuno. Stanno tutti in silenzio a testa bassa a beccarsi un cazziatone furioso. Mi avvicino al collega più in disparte, cercando di mimetizzarmi tra gli altri.

“Ma che succede?” bisbiglio. “Stamattina quando è arrivato ha trovato la cella spenta.” Mi spiega con un filo di voce. “Ma dai, di nuovo?!” “E tu? A quest’ora arrivi?!” la sua voce mi prende a martellate il cervello.
Quasi sull’attenti:“Scusi chef, ho trovato un sacco di tr…” “Non me ne frega un cazzo!” e subito, sempre urlando “Perchè hai spento la cella?” Rimango un attimo interdetto “…come…?” “SVEGLIA! Lo sai che stamattina ho trovato di nuovo la cella spenta?” “Si…me lo stava dicen…” “L’hai spenta tu?” mi interroga con una voce e uno sguardo più che inquisitori.
Come si fa a dare una risposta che sembri abbastanza sincera da convincere qualcuno che ti guarda con un misto di sospetto e disprezzo?
Che tono si deve usare per far capire che non stai mentendo? Mentre mi faccio queste domande, mi esce fuori un “No…” che mi sarei licenziato da solo. “Appena lo becco ‘sto stronzo che si diverte a spegnere le celle vi giuro che l’ammazzo con le mie mani!” E ci fa vedere le mani. Grandi mani. Mani da chef.
Passiamo, un collega ed io, le successive due ore dentro la cella frigorifero, accesa (4°), a controllare lo stato dei chili di carne al suo interno.
“Comunque è assurda ‘sta cosa!” Sarà la decima volta in un mese che la mattina ritroviamo la cella della carne spenta  “Secondo te chi è? E soprattutto perchè?” Mi parla e mi guarda con un entusiasmo che non gli ho mai visto. Quanto sono affascinanti i misteri!
Ovviamente sto al gioco:“Non so. Dovremmo cominciare a fare un po’ di domande in giro…” visto che fino a quel momento ce n’eravamo tutti altamente fregati “…per vedere chi è che avrebbe un motivo per danneggiare questa cucina” “Chiunque…” mi risponde con tono ovvio “Già…” E, sconfortati per non aver fatto passi in avanti, abbandoniamo l’indagine.
00.30. Abbiamo finito. Ci cambiamo e tutti a casa. “Cazzo! Ho lasciato il cellulare in cucina.” “Oggi non ne fai una giusta, eh?!” mi sfotte un collega. Gli mostro il dito medio mentre faccio per uscire dallo spogliatoio. “Dai, se aspetti due minuti ti accompagno”. Ce ne mette venti, di minuti.
Quando finalmente ci avviamo, non c’è più nessuno, il ristorante è silenzioso e buio. Entriamo in cucina. A memoria cerco il cellulare, che è dove l’ho lasciato. “Trovato?” “Sì sì, andiamo” Mentre mi infilo il telefono in tasca, mi accorgo che qualcosa non va. Mi guardo intorno e capisco subito di che si tratta “Ehi! Guarda! E’ spenta di nuovo!” “Chi è uscito per ultimo?” “Mi sa lo chef…aveva detto che doveva fare delle cose”
Ci avviciniamo per riaccenderla. La porta è accostata. Ci guardiamo incuriositi. Smettiamo di respirare per metterci in ascolto. La porta è spessa. Lontani rumori indecifrabili. Il mio collega spalanca la porta. Di fronte a noi c’è la cameriera (e che cameriera!) che si regge con le mani allo scaffale, sospesa. A gambe aperte. A coprire il resto del suo corpo la sagoma dello chef. Che quindi, ovviamente, ci dà le spalle. I pantaloni all’altezza delle caviglie. Ora ci hanno visto. Entrambi. Tutti zitti. Tutti ci guardiamo in attesa che qualcuno faccia qualcosa. Sembra una gara a chi spalanca di più gli occhi. Dico la prima cosa che mi viene in mente “Beh, se non altro, questo spiega un sacco di cose!”. 
Cucina. Bisogna pur divertirsi ogni tanto.

Antonio E. Sorrentino

Morirò per una patata?

Morirò per una patata?

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Delirio gastronomico di uno studente fuori sede.

-Ci sei? Skype?

– Sì. problemi?

– No ma mi sto suggestionando che magari le patate non erano ben cotte. E che mi possano fare male.

– Ma no…Crude mica fanno male.

– Si.
Sono tossiche.
Però proprio crude.
Io le ho lessate prima.

– Appunto.

– Poi messe in un pentolino. Con latte.

– Ma scusa se si sono sciolte erano cotte.

– No le ho schiacciate io. E alcuni pezzi non si sono sciolti.

– Ma  quando mai una patata cruda ha ammazzato qualcuno?

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– Beh, a qualcuno ha fatto male. L’importante è che non avesse i germogli. Tranq la tua non aveva i germogli.

 

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– Ma che ti sei mangiato la patata col germoglio?

 

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– Capisco… l’importante che fosse dura.
– Era molle.
L’importante che non avesse le macchie.
– Aveva le macchie.
Azz, ma dove le tieni ‘ste patate?
– Nello sgabuzzino.
Nello sgabuzzino.
 
Le cucine hanno gli occhi

Le cucine hanno gli occhi

di Antonio E. Sorrentino

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E’ tardi. Saremmo dovuti già essere in strada. E’ da un po’ che lo sto cercando, maledetto vigliacco, e chissà dove si è nascosto. Per quanto sia spiacevole la cosa, non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo farlo. E dobbiamo farlo ora. Vado al piano di sopra, è il posto migliore se non vuoi farti trovare.

Finalmente lo trovo, nel magazzino, finge di cercare qualcosa. Come mi vede arrivare spalanca gli occhi per un istante, rimettendosi a smanacciare ancora più indaffarato di prima.

Mi avvicino “Sei pronto? Dobbiamo andare.”
Nemmeno mi guarda, E’ agitato, ha la pelle lucida. “Ora proprio non posso, sto…”Piantala di cazzeggiare!!” lo rimprovero “Inutile che fai il vago. Lo sapevi che questo momento sarebbe arrivato! E ora che fai? Scappi!” “Non posso farlo ancora!” mi sta praticamente urlando in faccia “Non posso umiliarmi così!” la sua espressione e il suo volto sono rabbiosi, ma i suoi occhi tradiscono una profonda disperazione. E paura.

“Fino a che punto dobbiamo spingerci? E per cosa?” è tutto rosso. Le vene stanno per scoppiare.

“Eh?! Me lo sai dire a che cazzo serve tutto questo?! C’è pure vento!”.
Cazzo è vero! Il vento… sarà un problema. Rimaniamo in silenzio, fissando il pavimento. Ad ascoltare i nostri pensieri.

Aspetto che si calmi, poi mi avvicino. Gli appoggio una mano su una spalla. “Senti” cerco di usare un tono pacato “io non so perchè ce lo fanno fare, non so se è perchè gli serve davvero, o perchè si divertono a vederci soffrire.”  lo guardo negli occhi “Quello che so è che se non lo facciamo sarà peggio”

Aspetto un attimo, gli do il tempo di riflettere. Faccio due passi verso l’uscita. Mi giro “Per cosa dobbiamo farlo? Per la nostra sopravvivenza!”

“Ora che ti sei dato una calmata, mi dici a che serve tutto questo?” Siamo in mutande.
Con le giacche da cuoco. Bianchi come fazzoletti in una spiaggia piena di gente abbronzata, bambini che giocano, ragazzi che chiacchierano. Tutti quanti ci guardano. E non per il nostro fascino.

“Dobbiamo prendere l’acqua del mare e poi la filtriamo. Serve per conservare il pesce. Lo chef dice che sennò perde il profumo di mare” “ed è vero?” “Ma che ne so!”.

Cominciamo. Quanto ci vuole a riempire tre taniche da 50 litri con la boccuccia di un diametro di 5 cm, con il mare mosso? Circa 40 minuti. Entrando e uscendo di corsa dall’acqua, saltellando, imprecando, evitando le onde. Dopo un po’ di viaggi la tanica è ancora a metà, ma è già faccio fatica a tenerla con due mani. Camminando come un pinguino torno verso il mare. Una piccola duna e la tanica è per terra, io su di lei, l’acqua sulla sabbia e qualche centinaio di persone che scoppiano a ridere. Brutti stronzi.

Mi rialzo e ricomincio. E ancora e ancora. Facciamo avanti e indietro. Inciampando prima in mare, poi sulla sabbia, trascinando le taniche pesantissime, mandando a fanculo i bagnanti, che sembrano apprezzare il nostro spettacolino .Siamo davanti alla porta di servizio del ristorante. Siamo sfatti, sudati, appiccicosi. Salati e insabbiati. E ci aspettano un’altra decina di ore di lavoro.

E’ lo chef in persona ad accoglierci. “Ma quanto cazzo ci avete messo?!” caloroso e comprensivo “Filtratela subito e rimettetevi al lavoro. Forza muovete il culo!”. E ci lascia lì, a rifiatare. Fissando il vuoto.

Ci guardiamo. Il mio amico sembra avere gli occhi lucidi. Ci abbracciamo. Mi stringe così forte che quasi mi toglie il fiato. Lo sento sussurrare “Grazie…”. Lo stringo anch’io “Shhh…. E’ finita” il mio sguardo si perde nel mare, nostro nemico fino a pochi minuti fa. “E’ tutto finito!”