In principio erat cibus.

In principio erat cibus.

 

Stavasi sul ramo l’usigniuola, e l’usigniuoli suoi piccini d’entro del nido vociavan reclamando il desinare.

Transitavano colà dimolti vermi, e lombrichi, e larve d’ogni sorta. I corvi gracchianti ne facevano man bassa: ma l’usigniuola non moveva l’ali, non pareva por mente alla bisogna. Era alle viste un ciriegio in fiore. Di bianca e celestial bellezza, ma sol di gemme cardo. E venuta stagione, che i fiori in frutto alfin converse, ecco che spiccò il volo l’usigniuola, e le ciriegie al nido vermiglie e zuccherine ai pargoli portò. Che crebbero cantando, e di qual voce.

La favola ne insegna: che mangiar vermi sfama, ma la bellezza nutre.

Carlo Emilio Esopi

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In principio erat cibus.

In principio erat cibus.

 

Era in cucina che preparava il minestrone. Tritava, affettava, sminuzzava senza nemmeno vedere quello che faceva. Pensava solo alla sua bambina, la sua piccola fragile bambina indifesa che se ne andava via e chissà mai quando sarebbe tornata.

La sua bambina entrò.

–       Chepprofumino, che fai?

–       Ti faccio il minestrone buono, che poi chissà cosa dovrai mangiare, là in mezzo agli africani.

–       Mamma, vado a fare il medico in un ospedale, non l’allevatrice di scimpanzé nella foresta.

–       Perché qui di malati da curare non ce n’eran più…

–       Qui i malati hanno tutti i medici che vogliono, là no.

–       E han fatto domanda che volevan proprio te.

–       Dai mamma, ma non sei contenta che vado a fare quello che sognavo?

–       Certo che son contenta, son tanto contenta per te tesoro.

–       E allora perché piangi? non hai pianto neanche quando è morto il papà.

–       Ma che piangi e piangi, non vedi che sto affettando le cipolle? Lo vuoi fatto bene il minestrone o no?

–       Certo mamma, benissimo. Chiamami quando è pronto.

La sua bambina uscì, la lasciò finire di cucinare in pace. Nemmeno glielo disse, che stava piangendo affettando una patata.

Viviane Labrande

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In principio erat cibus.

In principio erat cibus.

 

Da piccoli noi cugini si stava un mese in campagna, ad aiutar gli zii nel frutteto. Eravamo in 5, dai 7 ai 12 anni. S’aveva un compito preciso: star nel fienile,prender dai cassoni le mele appena colte e metterle nei plateau, le cassette piatte col contenitore a vaschette. Non era un lavoro che poteva fare un dilettante: ci volevano occhio, manualità, anni di esperienza. C’era da riconoscere il formato di una mela solo guardandola o tenendola in mano: 24, tac, presa e messa nel plateau con le 6 file da 4. 26, attenzione, è l’altra cassetta con le vaschette blu. Se ballava, o se schiacciava il bordo della vaschetta, era l’onta, era l’insulto, e non di rado era lo scappellotto del cugino più grande. Detto in altri termini, si trattava di lavoro minorile non retribuito, finalizzato a vendere la frutta in nero a chi la rivendeva in nero sulle bancarelle. Si stava in piedi dalle 9 all’una e dalle 3 alle 6. Niente pause. La pipì si faceva nell’aia e per merenda bastavano le mele, così si risparmiava pure sulla sete. Agli occhi del mondo d’oggi era schiavitù familiare, politicamente scorretta, pedagogicamente indegna. Ai nostri occhi, era semplicemente una vita straordinaria. Avevamo sette anni e ci sentivamo eroi, senza incertezze né paure. Si lavorava in silenzio, concentrati, fieri del compito a cui si era chiamati. Finire per primi una cassetta, indovinando tutti i formati, era come prendere un dieci a scuola. Ma quel che più contava era ammirare le pile di plateau che a fine giornata si innalzavano sui bancali, in ordine millimetrico, pronte per essere caricate sul furgone. L’orgoglio della responsabilità a cui si è tenuto fede. Altro che non retribuiti. Avremmo pagato noi per poterlo fare. E la retribuzione c’era, in realtà. Era a cottimo, il cottimo del cuore: più fai, più sei ripagato dal bene della mamma e dalla considerazione degli zii. C’è qualche lavoro al mondo che possa dirsi pagato meglio?

Ernesto Fattorini

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In principio erat cibus.

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L’ultima immagine che Martin Vàzquez de Murialdo vide, un attimo prima di morire, fu la foglia di carciofo adagiata nel piatto. La foglia sulla cui punta, fino a pochi istanti prima, spiccava solitaria la spina che l’avrebbe di lì a poco ucciso.

L’aspetto più singolare di quella infelice circostanza risiedeva nel fatto che per lunghi anni della sua avventurosa vita, Murialdo aveva pensato alla propria persona come a un carciofo: spinoso e duro nella corazza del carattere, ma tenero e pronto alla generosità nel cuore.

Il prematuro bilancio finale di quella duplice immagine di sé volgeva purtroppo a favore della corazza, che troppo poco era stata sfogliata – nei momenti cruciali che giudicano un’esistenza – per svelare compiutamente la soffice polpa interiore.

Si dice che a lungo i medici restassero a discutere, col cadavere ancora chino sul tavolo, se ad ucciderlo fosse stata direttamente la spina, trapassando la trachea, o il soffocamento successivo. Ma come spesso accade nello svolgersi delle vicende terrene, anche in questo caso l’evidenza del fatto non produsse alcuna verità accertata. Già il giorno dopo, tuttavia, da Calle Honduras fino alla più remota periferia di Buenos Aires i venditori ambulanti offrivano, per pochi centavos in più, mazzi di carciofi senza spine, “ottimi per la gola e per i mali del cuore”. Finché durò il ricordo del Murialdo e della sua triste fine – ossia per qualche settimana ancora – quei carciofi andarono a ruba.

Jorge Luis Mendoza

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In principio erat cibus.

In principio erat cibus.

 

Aveva la pella molle e butterata come un mandarino.

E se si avvicinava, se metteva quella pelle di mandarino vicino alla mia, ecco che sapeva di scorza d’agrumi strofinata sulle mani. Sapeva di quei dopobarba che solo i barbieri del sud ancora tengono, esposti sul ripiano sopra il lavandino, con la bottiglia di vetro smerigliato e lo spruzzino di stoffa gialla da toilette.

Carmen Ambasciati

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In principio erat cibus.

In principio erat cibus.

 

Tornava a casa più tardi tutti i giovedì.

Non perché facesse qualcosa di particolare, non era uno di quei tipi che escono una volta la settimana a bere una birra coi compagni del college, vedendoseli invecchiare davanti agli occhi fino alla consunzione.

No, lui tornava a casa tardi il giovedì per due motivi. Il primo era che a casa non l’aspettava nessuno, e in fondo avrebbe potuto tornare quando voleva tutte le volte che voleva; il secondo, e più importante, era che tutti i giovedì al Little Eden, il negozio di frutta coreano all’angolo della Crescent Drive, il vecchio Park esponeva un nuovo ikebana di ortaggi. Un giovedì gli spinaci, un altro i broccoli, un altro ancora i gambi di sedano.

Ikebana! Cosa c’entrassero con quel posto, e cosa c’entrassero con lui, non riusciva proprio a comprenderlo. Eppure, ogni giovedì, non poteva fare a meno di fermarsi a guardare. Fissava quelle sculture aliene in silenzio per interi quarti d’ora, osservava ogni particolare: le corolle di lattuga, gli steli di cipollotti. Non capiva granché ma non smetteva di guardare.

In quell’incrocio senza bellezza di quella città senza poesia, fatta di lamiere, di rivenditori d’auto e di apparecchi televisivi che trasmettevano tutti i giorni la stessa immagine, ogni giovedì per lui era Natale: il miracolo di una nascita inattesa, il mistero che si manifestava lì, in quella vetrina, sotto la forma imprevedibile di un ikebana di broccoli.

 

Wilson McCarthy jr.

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