Da piccoli noi cugini si stava un mese in campagna, ad aiutar gli zii nel frutteto. Eravamo in 5, dai 7 ai 12 anni. S’aveva un compito preciso: star nel fienile,prender dai cassoni le mele appena colte e metterle nei plateau, le cassette piatte col contenitore a vaschette. Non era un lavoro che poteva fare un dilettante: ci volevano occhio, manualità, anni di esperienza. C’era da riconoscere il formato di una mela solo guardandola o tenendola in mano: 24, tac, presa e messa nel plateau con le 6 file da 4. 26, attenzione, è l’altra cassetta con le vaschette blu. Se ballava, o se schiacciava il bordo della vaschetta, era l’onta, era l’insulto, e non di rado era lo scappellotto del cugino più grande. Detto in altri termini, si trattava di lavoro minorile non retribuito, finalizzato a vendere la frutta in nero a chi la rivendeva in nero sulle bancarelle. Si stava in piedi dalle 9 all’una e dalle 3 alle 6. Niente pause. La pipì si faceva nell’aia e per merenda bastavano le mele, così si risparmiava pure sulla sete. Agli occhi del mondo d’oggi era schiavitù familiare, politicamente scorretta, pedagogicamente indegna. Ai nostri occhi, era semplicemente una vita straordinaria. Avevamo sette anni e ci sentivamo eroi, senza incertezze né paure. Si lavorava in silenzio, concentrati, fieri del compito a cui si era chiamati. Finire per primi una cassetta, indovinando tutti i formati, era come prendere un dieci a scuola. Ma quel che più contava era ammirare le pile di plateau che a fine giornata si innalzavano sui bancali, in ordine millimetrico, pronte per essere caricate sul furgone. L’orgoglio della responsabilità a cui si è tenuto fede. Altro che non retribuiti. Avremmo pagato noi per poterlo fare. E la retribuzione c’era, in realtà. Era a cottimo, il cottimo del cuore: più fai, più sei ripagato dal bene della mamma e dalla considerazione degli zii. C’è qualche lavoro al mondo che possa dirsi pagato meglio?
Ernesto Fattorini