Il suono di piatti, posate e bicchieri che si dispongono sulla tovaglia cercando l’accordo dell’apparecchiamento è un concerto di strumenti privati che annuncia pubblicamente l’ora del pasto, il preludio alla pappa, la campana domestica che precede la celebrazione della messa in tavola.
È bello sentire l’orchestra delle stoviglie, per quanto disordinata mette allegria, è un piacere sensibile che nasce inconsciamente da una conquista dal sapore atavico: la vittoria quotidiana contro la fame.
La musica che proviene dalle finestre delle cucine, colonna sonora di muti e invitanti profumi, rappresenta quel momento in cui l’ufficialità della vita si ferma e il fiume della storia si perde e si confonde nei mille rivoli delle case, nei sughi dei ristoranti, nelle bottiglie delle osterie.
In questa pausa quieta dell’esistenza, la gente si toglie la maschera della civiltà e torna a essere ciò che è, nella virtù e nel vizio. Davanti al cibo non ci si toglie solo la fame ma anche l’identità sociale che viene abbandonata per qualche mezz’ora, appesa alla spalliera della sedia come la giacca.
Il cibo riempie ma libera ed esige libertà, pretende lo spazio di uno stomaco vuoto. Se da una parte il cibo dà sfogo all’animale affamato, dall’altra fa assaporare un retrogusto di coscienza e una comunione col mondo, si entra in contatto con la propria interiorità per liberare pensieri e verità nascoste, meglio se in un convivio di persone amiche. La sinfonia delle scodelle è musica sacra, come il cibo, e ritrovarsi a tavola è prima di tutto ritrovare se stessi.
Intinto in queste considerazioni, sono riuscito finalmente a chiarirmi la causa recondita di quella indecifrabile delusione che ho sempre provato davanti ai piatti di plastica, alle posate di plastica, ai bicchieri di plastica, alla vita di plastica.