di Umberto Pavoncello.
Il pane, in ebraico, è lèchem. Nella radice di lèchem c’è “milchamà”, guerra, bisogna combattere per mangiare, il pane bisogna conquistarselo: col sudore della fronte. Il pane è un elemento fondamentale sulla tavola di tutti ma, nella tradizione ebraica, acquista un valore supplementare determinato dai significati simbolici che gli vengono attributi. Prima di tutto il pane è ciò che rende un pasto ritualmente degno di questo nome.
Se si fa un pasto che include il pane, prima si deve fare il lavaggio rituale delle mani con la caraffa a due manici, poi si deve recitare una berachà che proclama “Benedetto Tu sia Signore nostro Dio, Re del Mondo che tiri fuori il pane dalla terra “, quindi, senza parlare, si deve mangiare un pezzo di pane a cui si aggiunge del sale. Solo a questo punto si può iniziare a mangiare. Quando durante il pasto si è mangiato del pane, alla fine si deve fare un canto di ringraziamento.
Questo uso discende direttamente da quello che i Sacerdoti facevano nel Santuario di Gerusalemme, il Bet Ha Mikdash.
Con la seconda distruzione del Bet Ha Mikdash, ad opera dei Romani di Tito, scompare il centro della vita spirituale del Regno d’Israele. Di fronte alla catastrofe si comincia a sognare il ritorno, per non dimenticare si trasferiscono alla tavola alcuni rituali e obblighi legati al Bet Ha Mikdash. La macellazione, per esempio, era la stessa che si faceva per i sacrifici.
Il motivo per cui ci si lavano le mani con una particolare caraffa a due manici è che che si deve mangiare in condizioni di purità, che non è un concetto morale ma pratico: nel Bet Ha Mikdash di Gerusalemme si poteva entrare solo in condizioni di purità: l’impurità era quella che si contraeva imbattendosi, per esempio, in una carogna d’animale o recandosi a una cerimonia di sepoltura o anche per una polluzione notturna. Se era questo il caso, uno doveva immergersi, cambiarsi i vestiti e considerarsi impuro fino a sera.
Ecco perché ci si lavano le mani una per volta impugnando uno dei due manici della caraffa, versando l’acqua sopra la mano destra per tre volte e poi cambiando sia la mano, sia il manico: prima si “purifica” una mano e con la mano pulita si impugna il manico pulito, poi si cambia. In questo modo la mano pulita non impugna lo stesso manico che è stato toccato con la mano sporca. In sostanza si porta i tavola la sacralità legata ai sacrifici che si facevano sull’altare di Gerusalemme.
“Bet” – significa casa “bait”, letteralmente “la casa di”, “Ha Mikdash” il Santo. Ma “bet” è anche la seconda lettera dell’alfabeto e nella Ghematrià (metodo esegetico che fa corrispondere ogni lettera a un numero), la lettera bet vale 2. Questa dualità allude sia al punto più santo della terra, cioè al Bet Ha Mikdash, sia alla casa (bait) dell’Uomo, casa che egli può trasformare in un Bet Ha Mikdash katàn, un Santuario in miniatura.
Nella Ghematrià, la differenza tra Mikdash – che vale 444 – e Bàit – che vale 412 è 32. Il valore numerico di Lev (cuore). Questo ci insegna che soltanto mettendo il proprio cuore in una casa si può trasformarla in un tempio.
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