
Il suono di piatti, posate e bicchieri che si dispongono sulla tovaglia cercando l’accordo dell’apparecchiamento è un concerto di strumenti privati che annuncia pubblicamente l’ora del pasto, il preludio alla pappa, la campana domestica che precede la celebrazione della messa in tavola.
È bello sentire l’orchestra delle stoviglie, per quanto disordinata mette allegria, è un piacere sensibile che nasce inconsciamente da una conquista dal sapore atavico: la vittoria quotidiana contro la fame.
La musica che proviene dalle finestre delle cucine, colonna sonora di muti e invitanti profumi, rappresenta quel momento in cui l’ufficialità della vita si ferma e il fiume della storia si perde e si confonde nei mille rivoli delle case, nei sughi dei ristoranti, nelle bottiglie delle osterie.
In questa pausa quieta dell’esistenza, la gente si toglie la maschera della civiltà e torna a essere ciò che è, nella virtù e nel vizio. Davanti al cibo non ci si toglie solo la fame ma anche l’identità sociale che viene abbandonata per qualche mezz’ora, appesa alla spalliera della sedia come la giacca.
Il cibo riempie ma libera ed esige libertà, pretende lo spazio di uno stomaco vuoto. Se da una parte il cibo dà sfogo all’animale affamato, dall’altra fa assaporare un retrogusto di coscienza e una comunione col mondo, si entra in contatto con la propria interiorità per liberare pensieri e verità nascoste, meglio se in un convivio di persone amiche. La sinfonia delle scodelle è musica sacra, come il cibo, e ritrovarsi a tavola è prima di tutto ritrovare se stessi.
Intinto in queste considerazioni, sono riuscito finalmente a chiarirmi la causa recondita di quella indecifrabile delusione che ho sempre provato davanti ai piatti di plastica, alle posate di plastica, ai bicchieri di plastica, alla vita di plastica.

L’unico riso condito con fantasia è il riso in bianco. Si può aggiungere un po’ di burro o un po’ d’olio, al limite olio e limone ma niente di più. Quando si prepara il risotto ai frutti di mare, alla milanese o l’insalata di riso – affollata babele di sapori che mette le lingue in conflitto – la fantasia non serve perché la realtà è già abbastanza condita, anche troppo. Il riso in bianco invece è il piatto preferito dalla fantasia, come il foglio bianco è prediletto dalle matite colorate. Non appena si riversano nel piatto quelle centinaia di gemellini che si chiamano tutti chicco, la fantasia accorre e si getta nel mezzo per dare tono e colore a quel muto insieme di bianco su bianco.
Riso in bianco e fantasia sono ingredienti inseparabili, bisogna tenerli sempre vicini. Lo sanno bene tutti quelli che hanno limitazioni alimentari le quali, per essere superate, hanno bisogno dell’immaginazione. Senza fantasia il riso è insipido, la fantasia è l’unica in grado di cambiare il gusto delle cose, l’unica che aiuta a vedere il piatto mezzo pieno. Nessun tartufo e nessun salmone saranno mai in grado di rendere appetitoso un riso che viene mangiato da una bocca poco fantasiosa – direbbe il saggio cinese – che non a caso mangia molto riso.
La fantasia del riso in bianco è pura e non corrompe con sofisticate golosità, non servono. Il riso apre la porta dello stomaco con delicatezza, con la stessa attenzione del purè, poi accarezza la pancia in un modo che fa sentire ancora bambini, da sempre i migliori interpreti della fantasia.
Nella vita come a tavola siamo ormai protesi alla ricerca di forme di godimento sensazionalistiche, di superare i record del divertimento e del piacere, ma forse la ricetta della felicità è più semplice di quanto si creda. O forse la fantasia del riso è solo un’illusione, ma merita un sorriso, in bianco.

In origine l’insalata era solo verdura, col tempo è diventata un modo di essere, una forma espressiva che ciascuno interpreta secondo il gusto, mettendoci dentro gli ingredienti che preferisce. L’insalata è una delle metafore più efficaci del nostro stile di vita che condisce le giornate con impegni, appuntamenti, relazioni in abbondanza.
Sarà che il mondo è più complesso e che aumentano le possibilità ma inevitabilmente siamo anche più complessati. Per quanto tutti si dannino per trovare la formula dell’insalata perfetta, ci sono momenti in cui ci troviamo seduti davanti un piatto che non vorremmo mangiare, eppure l’abbiamo preparato noi. È vero che la realtà supera sempre la fantasia, e a volte si allontana talmente tanto che le persone si perdono senza sapere dove si trovano.
Anche la vita affettiva può diventare un’insalata affollata di presenze che non hanno un ruolo chiaro, né vogliamo che lo abbiano. È un miscuglio spacciato per festa in cui non si vieta l’accesso a nessuno, dal dado di emmenthal, al carciofino, alla cipolla sottaceto, un caos in cui si va avanti sperando di digerire tutto. Il rischio è che l’insalata diventi un gran pasticcio, un insieme di sapori e ingredienti nemici, che non vanno né su né giù, amori indigesti per cui il bicarbonato non basta.
Se si vuole essere dei bravi insalatieri, bisogna saper selezionare, amalgamare, condire, ci vuole una mano esperta o una capacità artistica che fa del caos un’opera d’arte, come l’insalata di Pollock. Chiunque al posto di Pollock, con gli stessi ingredienti, avrebbe combinato una schifezza, un pastrocchio infantile privo di gusto. Invece il risultato ottenuto da Pollock è meraviglioso e la sua opera avvicina l’uomo al sublime. Il problema è che, non so voi, ma io non sono Pollock.
Se l’insalata che avete preparato non vi piace, fermatevi e ricominciate, iniziando col togliere quello che di certo non vi piace: un’erba amara, un latticino troppo acido, quella bacca viola che avete scelto per simpatia o per essere originale. Andate sul sicuro e scegliete ingredienti semplici, buoni ma pochi.

Ci sono momenti in cui il cerchio delle esperienze sembra essersi chiuso e che non ci sia più spazio per aprirsi al nuovo. Capita quando si notano i prodromi di un declino che vorremmo non accadesse mai: i primi capelli bianchi, la presbiopia, l’insofferenza per la musica ad alto volume, le energie che diventano poche e i chili che diventano troppi. Succede quando la minestra diventa solita, anche se non è una minestra, e la pesantezza dell’abitudine dà sempre lo stesso gusto a giornate che non saliranno mai sul podio dei ricordi. In questi esordi di crisi è bene alzare la testa e guardare in alto. Soffiate contro le nuvole che avanzano e liberate la visuale dell’orizzonte, il mondo è pieno di possibilità anche quando le cose sembrano andare peggio, soprattutto quando le cose sembrano andare peggio.
Massimo soffriva di pressione alta e doveva ridurre le quantità di sale. Fu così che conobbe il gomasio, glielo presentò un medico che era una brava persona.
– … deve limitare il sale, perché non usa il gomasio?
– Cos’è?
– Prenda 500 g di sesamo e lo faccia tostare in una padella molto calda per un paio di minuti. Vedrà, quando i chicchi cominciano a saltare vuol dire che è tostato, se ne accorgerà anche dal profumo. Aggiunga al sesamo tostato un cucchiaino scarso di sale marino non raffinato, macini tutto per bene e avrà il gomasio. È facile, è buono e starà meglio. È un condimento eclettico, insieme al lievito maltato e al germe di grano rende la pasta deliziosa.
Qualche giorno dopo a una cena, Massimo raccontò la scoperta del gomasio, che aveva portato in un piccolo vasetto e che fece assaggiare agli amici come condimento dell’insalata. Alessia ne fu conquistata e fu conquistata anche da Massimo, mangiò l’insalata e quella notte si mangiò anche Massimo. Dare il merito della conquista al gomasio è sicuramente eccessivo, ma la conoscenza di quella novità in qualche modo lo rinnovò e fece vibrare al meglio le corde del suo carisma. Il sapore della nostra vita può migliorare con poco, l’importante è alimentarla correttamente e non abbandonarla mai alla deriva del malumore, il resto viene da sé.

Il salame è l’elogio della semplicità. Quando si ha voglia di assaggiare il lato genuino della vita, di riscoprire il sapore di se stessi ascoltando l’onestà del desiderio, si sceglie il salame, totem della cultura contadina, obelisco della dispensa. Il salame soddisfa il gusto del palato e il bisogno recondito di confessarsi, senza bisogno di tavole ridondanti, né di sofisticazioni sociali. Mangiare il salame è bello come togliersi le scarpe e i vestiti stretti. Rende onesti, il salame. Con il salame ci godiamo il nostro porco, comodo, in cucina, perché è così buono che non ci obbliga alla costrizione del dress code. Tolta la pelle, il salame resta nudo e non si vergogna, non ha bisogno di coprirsi con le salse, con le foglie di insalata. Il salame è puro.
Forse è per questo che alla fine le donne sposano un salame, perché nonostante non abbia la classe del fagiano in crosta, l’esotismo del sushi o lo stile dell’astice, non finge, non tradisce e non fa scherzi. È quello che è. Magari il nero smoking del caviale, con la complice euforia dello champagne, fa girare la testa per una sera ma dopo? Si sa che il fascino è merce ambita e i tipi molto appetitosi sono sfuggenti. Il buon tenebroso annoia in fretta, è troppo prevedibile, mai una volta che ti sorprenda con un grano di pepe. Il salame, invece, con la schiettezza del vino rosso ti fa divertire sempre e non chiede altro se non la sincerità. Il salame si affetta perché è affettuoso. E poi al salame le donne piacciono al naturale, anche in tuta, anche struccate.
Quel salame di mio marito! – lamento che le mogli ripetono spesso, in verità ha il sapore del complimento.

Ci sono donne bionde come la maionese, dal fascino francese come la maionese e facili alle pazzie, come la maionese. La maionese seduce oltre il gusto e i suoi amanti non sanno resisterle. È quella salsa che, spalmata sulla ragione, corrompe i pensieri con cucchiaini di follia. Che la maionese non sia un tipo facile, si capisce subito dalla richiesta dell’uso della frusta.
Frustami.
La richiesta della frusta coglie molti pretendenti impreparati. Alcuni restano annichiliti, altri battono in ritirata lasciando gli slip sguarniti e privi di volontà offensiva, pochi osano. Il bisogno della frusta impone la presenza di un polso fermo, di una mano decisa e capace di condurre la danza. Quando si comincia il vorticoso rapporto con la maionese non si può smettere, né tornare indietro, altrimenti impazzisce, anzi impazziscono tutti, soprattutto se gli ingredienti non legano, vittime di una voglia matta.
Per la maionese ci vuole l’uovo fresco e l’uomo sodo. Non è roba per temperamenti glabri, è necessario del pelo. Nel braccio di ferro tra i sessi arriva sempre il momento in cui gli uomini devono capire se c’è bisogno di prendere o di comprendere. Se non si capisce la differenza tra questi due estremi è meglio un solitario digiuno o accontentarsi della mestizia di una minestra.
La maionese non ha logica, esige solo intuito, dotazione di cui l’essere maschile spesso è privo. Per questo l’intesa con la maionese è un traguardo a cui arrivano coloro che mantengono il controllo di sé, e non quelli che si perdono nel vizio. C’è un momento in cui bisogna saper prendere, c’è un tempo in cui si deve lasciare. La maionese picchia sul fegato ma il suo desiderio ha effetti ancora peggiori perché lo rode. È una salsa che vive di relazioni scivolose in cui occorre meditare e muoversi con cautela, altrimenti sarà lei a finire e sfinire l’amante, lasciandolo esanime come un tubetto spremuto fino allo spasimo.
Sono in tanti ad andare pazzi per la maionese, ma pochi sanno che desiderarla ogni giorno è una pazzia.