Bereshit

Bereshit

di Umberto Pavoncello

Sabato è ricominciata la lettura ciclica della Torà affidata al “chatan bereshit” lo “sposo del principio”, che segue al “chatan torà”, lo “sposo della Torà” che la settimana precedente aveva letto l’ultimo brano che si conclude con la benedizione che Mosè, prima di morire, dà al popolo ebraico.

Bereshit comincia così: “In principio il Signore creò il cielo e la terra… Bereshit barà elokhim et ah shamaim ve et ah haretz. “Reshit” è un genitivo, letteralmente significa “inizio di…- capo di…”. Il problema è che il testo non specifica inizio, o capo, di che cosa. Poi ci torniamo.

In questo primo capitolo, dopo la luce, gli astri, le specie vegetali, gli animali, si arriva alla creazione dell’Uomo. “Dio prese della polvere dalla terra…”: la prese ai quattro angoli della terra affinché l’uomo possa essere sepolto ovunque muoia. Secondo un’altra interpretazione la prese dalla terra del luogo in cui sorgerà l’altare dei sacrfici perché l’Uomo sappia che c’è sempre una possibilità di pentimento e di perdono per le proprie trasgressioni. Terra, quindi.

Poi il Signore soffiò nelle narici di “adam” che divenne un essere vivente. Adam(o), che viene dalla parola “adamà” che vuol dire terra, prende vita col soffio di Dio. Dio quindi prende un po’ dai mondi inferiori, la polvere della terra, e un po’ da quelli superiori, il soffio divino. Terra e cielo, quindi.

L’Uomo, secondo una definizione rabbinica, “è come l’albero del campo”. Rovesciato: le sue radici sono in cielo e se l’albero trae nutrimento dalla terra, l’uomo dal cielo.

Mi è rimasta impressa, come a molti credo, la scena de “l’attimo fuggente” in cui gli studenti sono invitati dal professore a salire sui banchi per vedere le cose da un’altra prospettiva. Ma non avevo mai provato a immaginare me stesso con i piedi in cielo e la testa in basso, come un albero rovesciato, appeso come un lampadario: provateci è un cambio di prospettiva molto interessante.

Mi piace pensare che quel Bereshit, “inizio di” “capo di” si riferisca al “capo” dell’Uomo, alla testa dell’Uomo. Dio ha creato nella nostra testa il cielo e la terra, la capacità di “vederli”, la consapevolezza di essere sulla terra e l’aspirazione verso le cose elevate, la ragione e l’emozione.

Che si creda o non si creda che Dio esiste, bisognerebbe comunque ringraziarlo.

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Miele

Miele

di Umberto Pavoncello

La terra promessa è definita nella torà “una terra stillante latte e miele” ma il miele di cui si parla è un miele che anticamente – e probabilmente ancora oggi – si faceva con i datteri, frutto dell’omonima palma. A un popolo che girovaga per il deserto per 40 anni la promessa – in forma indiretta secondo il ragionamento se c’è miele ci sono i datteri se ci sono i datteri ci sono le palme – di una terra ricca di palme doveva sembrare particolarmente “allattante”. il miele d’api invece è un alimento che per molti anni nelle discussioni rabbiniche è stato controverso. si discuteva infatti se il miele fosse kasher oppure no e in una discussione talmudica si arriva alla conclusione che il miele d’api è kasher. Ma come?

La regola generale della kasherut dice che è kasher quello che proviene da animali kasher e l’ape – ammesso che qualcuno lo faccia – non è certamente permessa, mica te la puoi mangiare! come si risolve la questione?

Il talmud che è una raccolta di discussioni avvenute tra sapienti (chakchamim) e maestri (rabbanim), nell’arco di circa otto secoli – dal III secolo a.v. al V secolo d.c. – affrontando l’argomento conclude che non è l’ape stessa a produrre il miele ma che questo è il frutto dell’elaborazione del nettare che avviene in una sacchetta (borsetta melaria) costituita da una dilatazione dell’esofago.

Fa un certo effetto pensare che già duemila anni fa qualcuno si sia interessato così caparbiamente alla vita delle api, tanto da capire che nella borsetta le laboriose api ci tengono tutte le loro cose ma, soprattutto, è qui che il nettare subisce una prima trasformazione chimico-fisica che lo farà diventare miele.

Forse duemila anni fa i rabbini si sono detti “ma bisogna proprio rinunciarci, al miele?”

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rosh ha shanà

rosh ha shanà

di Umberto Pavoncello

Rosh ha shanà è il capodanno ebraico (l’anno segue le fasi lunari) con cui si celebra la creazione del mondo “avvenuta” 5773 anni fa, “bereshit barà helokim” cioè “in principio dio creò”. La parola con cui inizia la torà e, idealmente, la storia dell’universo, è quindi “bereshit” che deriva da “rosh” che significa “capo, testa”.

Letteralmente bisognerebbe tradurre “in principio di” perché è un genitivo ma la frase resta sospesa e non si sa il principio di che. ma se vogliamo, visto che rosh è proprio la testa dell’essere umano, potremmo leggere che è nella testa dell’uomo che dio ha creato il concetto di tempo.

“bereshit barà helokim et ha shamaim ve et ha haretz” cioè “il cielo e la terra”: il mondo e lo spazio in cui la terra gira e si muove. attraverso le rotazioni del globo contiamo le ore, i giorni, le settimane, i mesi e gli anni.

“shanà” ha la radice nella parola che esprime la ripetizione (anche studiare si dice “ripetere”) e l’anno in effetto è l’inizio e la fine di un ciclo che si ripete ma, colpo di scena, la parola “shinui”, che da shanà deriva, significa invece cambiamento, introduzione di una variante, difformità. quindi l’anno, nella concezione ebraica del tempo, è qualcosa che si ripete nel cambiamento in barba alla sterile e noiosa ripetizione ciclica dell’eterno ritorno.

A rosh ha shanà si chiudono gli occhi e si guarda al futuro con gli occhi chiusi: solo così si può immaginare il cambiamento senza lasciarci schiacciare dalla realtà. perché, a differenza del punto di vista pagano, la realtà non è un ciclo – senza speranza – di ritorno al caos ma è una progressione, per quanto lenta, verso tempi migliori e un’umanità migliore.

Un processo che comincia dall’individuo, da ognuno di noi, un lavoro di riconsiderazione delle azioni passate, il pentimento per le azioni negative e e il proposito di eliminarle, precondizione per poter aspirare al perdono nel giorno di kippur che sarà fra dieci giorni.

A rosh ha shanà è usanza mangiare cose dolci ed evitare quelle aspre, a Roma, per esempio, non si mangiano cibi conditi con il limone, né l’uva perché gli acini hanno la forma delle lacrime. la tradizione prevede gli spicchi di mela intinti nel miele per propiziare dolcezza per l’anno che inizia.

Si mangia anche la melagrana che rappresenta il popolo ebraico, ma se vogliamo tutta l’umanità, tanti chicchi tutti stretti insieme, vicino vicino l’uno all’altro tenuti insieme dalla scorza: allusione al fatto che siamo legati tutti l’uno e che il cambiamento per essere davvero significativo deve riguardare tutta la collettività.

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Mandragola

Mandragola

di Umberto Pavoncello

Giacobbe che ha incontrato la bella Rachele al pozzo, si offre di lavorare per Labano suo futuro suocero, in cambio della mano della fanciulla: sette anni che gli paiono un giorno tanto Giacobbe ama Rachele. Ma il giorno delle nozze Labano, invece della bella e amata Rachele, nascosta sotto al velo, ci manda Lea. “Perché?” chiede affranto Giacobbe “Qui da noi si usa che prima si sposa la sorella grande e poi quella più piccola”, risponde Labano. Altri sette anni di lavoro per Giacobbe per poter sposare subito anche Rachele. Lea ha gli occhi consumati mentre Rachele è bella di forme e di aspetto. Lea è trascurata, Rachele è – e vorrei vedere – la moglie preferita di Giacobbe.

“Ora, il Signore, vedendo che Lea veniva trascurata da Giacobbe, la rese feconda, così concepì e partorì un figlio, e lo chiamò Reuven, perché disse: “Il Signore ha visto la mia umiliazione, certo ora mio marito mi amerà”.

Rebecca partorisce altri tre figli e Rachele niente: è sterile. Un giorno Reuven torna con delle mandragole e Rachele ne chiede un po’ per sé. E Lea s’infuria “Non ti basta di avermi preso il marito, vuoi anche le mandragole di mio figlio?” Poi si mettono d’accordo: quella notte Giacobbe dormirà con Lea in cambio delle mandragole Reuven. E quella notte Lea resta incinta del quinto figlio.

Le mandragole però fanno il loro effetto e, di lì a poco, anche Rachele darà il suo primo figlio a Giacobbe, il bellissimo Giuseppe che diventerà, dopo molte peripezie, Vicerè d’Egitto.

La mandragola o mandragora è famosa e riconosciuta per le sue qualità anestetiche ma il suo antropomorfismo – le radici hanno una particolare biforcazione che ricorda la figura umana che può essere “maschile” o “femminile” e le foglie simili ai capelli – ha probabilmente contribuito a renderla, nella tradizione popolare, la pianta magica dai poteri sovrannaturali, potente afrodisiaco e cura infallibile per la sterilità.

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Mela.

Mela.

di Umberto Pavoncello.

“Mangerai da ogni albero del Gan Eden ma dall’albero della conoscenza del Bene e del Male non mangerai perché nel giorno in cui ne mangerai sicuramente morirai.” Adamo e Eva, come si sa, convinti dall’astuto serpente, furono cacciati dal Gan Eden per aver mangiato dall’albero del Bene e del Male. Da notare che il Bene e il Male sono un tutt’uno, che il serpente gioca un ruolo fondamentale nella scelta e che i nostri progenitori scelgono di mangiare dall’albero pur essendo stati avvertiti che ne morranno.

Ma non si muore a causa della trasgressione bensì in virtù della trasgressione. Mangiare dall’albero del bene e del male significa acquisire quella conoscenza che distingue l’uomo dagli animali. La conoscenza è consapevolezza e morire, in sostanza, è la consapevolezza di essere mortali. Così come vivere è consapevolezza di essere vivi.

In ogni cosa Bene e Male coesistono e il compito dell’Uomo sta nel distinguere l’uno dall’altro e scegliere il Bene. “Ecco ho messo davanti a te oggi Vita e Bene e Morte e Male… Chiamo a testimoni il Cielo e la Terra di fronte a te: Vita e Morte ti ho messo di fronte, la Benedizione e la Maledizione – scegliete la vita affinché voi e i vostri figli possiate vivere!”

E il Male, in fondo, è la Morte, sono i comportamenti distruttivi o autodistruttivi di cui siamo sempre in qualche modo consapevoli. All’opposto, il Bene sono quei comportamenti che sentiamo buoni, che ci fanno vivere perchè sono “creativi” e creano realtà positive.

Qui si parla di libero arbitrio, della possibilità che sempre abbiamo di scegliere ogni volta che ci troviamo di fronte a un bivio. Una libertà che è soprattutto una grande responsabilità e che rende inutili i tentativi di dare la colpa a questa o a quella circostanza come fa Alberto Sordi che in Pretura piagnucola “c’ho avuto ‘a malattia, a me m’ha rovinato ‘a malattia… m’ha bloccato.”

Il serpente che cos’è? È, naturalmente, parte di noi, è quella vocina dentro di noi che minimizza, che trova le scuse, che si autoassolve. È la vocina che dice “che male c’è?”

Questo è un paradigma per tutta l’umanità. Siamo stati posti, tutti, nel Gan Eden, Vita e Morte ci sono state messe davanti e Dio ci ha detto di scegliere la Vita. Ma continuiamo ad ascoltare il serpente tentatore che ci esorta a mangiare frutti mortali nonostante le inevitabili conseguenze.

Comunque c’è discussione su quale fosse il frutto che rese mortale la coppia primordiale e, secondo i maestri, a quanto pare non era una mela. Forse per dire che non siamo ancora alla frutta.

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O carne o latte. Secondo.

O carne o latte. Secondo.

di Umberto Pavoncello.

La kabbalà, la mistica ebraica, ritiene che ci sia una corrispondenza tra Cielo e Terra e reciproche influenze tra quello che succede lassù e quello che succede quaggiù. Ne consegue che le azioni degli Uomini possono influenzare le decisioni che si prendono in Alto, consegnando ai nostri comportamenti umani quotidiani e apparentemente banali, il massimo di responsabilità.

Secondo la kabbalà le sefiròt, che sono emanazioni, modalità, espressioni di Dio nel mondo, sono dieci più una e sono rappresentate dal cosiddetto Albero delle Sefiròt. La più alta – Keter che traduciamo Corona – è un modo di manifestarsi di Dio che va oltre le possibilità di comprensione dell’Uomo mentre la più vicina a noi è la Shekinà, la presenza divina che solo alcuni hanno il bene di sperimentare. Senza analizzare tutte le altre sefiròt, prendiamo in considerazione Din, la Giustizia, e Hesed, la Misericordia.

Din/Giustizia si esercita con rigore, inflessibilità, durezza e, quando si “giustizia” un criminale, con spargimento di sangue. Hesed/Misericordia è tolleranza, comprensione, amore: gli aspetti più materni del divino.

Secondo la kabbalà, quindi, alla carne si associa il Din perché di fronte alla necessità del nutrimento si è rigorosi e inflessibili, perché il consumo di carne implica lo “spargimento di sangue” dell’animale della cui sorte, vita o morte, ci ergiamo a giudici. È il trionfo della soggettività e in un certo senso dell’egoismo. Al latte, che è dono amoroso e materno, protezione, altruismo, che rappresenta la nostra capacità di mettere in primo piano le necessità dell’Altro, viene associato il Hesed.

In sostanza, dietro il divieto di mescolare carne e latte c’è un grande insegnamento: Giustizia e Misericordia non devono essere mescolate, confuse una nell’altra. Giustizia e Misericordia devono viaggiare parallele ma separate in due momenti diversi. Quando si applica la giustizia non possiamo essere misericordiosi per non invalidare gli indispensabili intenti didattici insiti nell’esercizio della Giustizia. Allo stesso tempo non si deve pretendere di ottenere effetti educativi approfittando del momento in cui ci mostriamo comprensivi e tolleranti.

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